Like, messaggi, emoticon e post risultano essere sempre di più controllati da parte del datore di lavoro.
Chi detta le “regole social” è soprattutto la giurisprudenza che negli anni ha definito i confini della privacy in ambito lavorativo.
Se generalmente i messaggi scambiati in chat private sono coperti dal c.d. segreto della corrispondenza e quindi non possono, salvo eccezioni, fondare una responsabilità disciplinare, molto diverso è il caso dei post pubblici pubblicati sui social network che, avendo una diffusività molto maggiore, possono addirittura giustificare il licenziamento.
Il fatto è successo a Catanzaro dove un’addetta alla mensa scolastica ha criticato su Facebook la qualità del cibo somministrato, mettendo in dubbio l’onestà dei consiglieri comunali che avevano effettuato l’ispezione (Corte di appello di Catanzaro, sezione lavoro, sentenza 1352 del 28 dicembre 2021).
Il datore di lavoro può controllare i profili social dei dipendenti e sanzionarli se i post sono offensivi o scritti durante l’orario di lavoro.
Si tratta infatti di pagine pubbliche che possono rovinare l’immagine aziendale. In altro modo, può essere licenziata la dipendente che indossa la divisa da lavoro e gira un video su TikTok lamentando che «sia solo mercoledì» accompagnando il racconto da emoticon con gli occhi sbilenchi e la lingua di fuori (Tribunale di Roma, sezione lavoro, sentenza 6854 pubblicata il 30 giugno 2023).
A pesare sono anche gli account pubblici, il numero di amici e i contenuti dei commenti condivisi. Per i giudici, infatti, anche solo le emoticon sono in grado di esprimere concetti e a rendere ben chiaro il pensiero di chi le invia. A Genova il Giudice ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore anche per commenti denigratori diffusi in chat. In questo caso però nel gruppo vi erano numerosi utenti fra cui fornitori e figure di compagnie concorrenti.
Anche qui a finire sotto la lente del giudice molte tra le emoticon più usate, cioè quelle di “applauso -braccio muscoloso - faccia sorridente”, ritenute consone ed idonee da sole a sostenere e condividere frasi offensive verso il datore di lavoro.
Se, per esempio, metto un like ad un post offensivo e il post riguarda fatti occorsi sul posto di lavoro il datore ben potrebbe utilizzare quel post in un eventuale giudizio per fondare, nei casi più gravi, un licenziamento disciplinare o anche solo per comminare sanzioni disciplinari.
E’ accaduto, infatti, che un dipendente abbia postato su Facebook l’immagine di un ufficio anche senza indicare il nome dell’azienda e i nomi dei dipendenti insultando il datore di lavoro. Il fatto che molti dei dipendenti in forza presso quest’azienda abbiano riconosciuto l’ufficio e abbiano interagito all’interno del post è bastato per far scattare la sanzione disciplinare.
Quindi attenzione a quello che si pubblica e ai like o ai commenti che si postano perché potrebbero essere usati contro di voi in una causa anche al fine di porre fine al vostro rapporto di lavoro!
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