Rimozione di autovelox irregolari denominati T-EXSPEED V 2.0

Nel corso dell’estate del 2024, un’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Cosenza ha permesso al Gip di ordinare alla Polstrada il sequestro di apparecchiature per il rilevamento della velocità conosciuti con il nome di T-EXSPEED V 2.0 lungo alcuni tratti stradali della provincia cosentina. Sulla scorta di queste indagini, sono state poste sotto sequestro identiche apparecchiature anche in altre regioni italiane, tra cui Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Basilicata, Puglia, Campania, Liguria, Molise e Sicilia.

In realtà, il problema della legittimità di suddetti apparecchi lungo alcuni tratti di strada del nostro Paese non è nuovo e già da alcuni anni molte Corti territoriali si erano pronunciate in senso favorevole agli utenti destinatari dei verbali di contestazione di violazione del Codice della Strada.

L'art. 142 co. 6 C.d.S., stabilisce che “per la determinazione dell'osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate anche per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti determinati, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento”. La norma appare chiara in quanto prevede che soltanto le risultanze di quelle apparecchiature soggette all’omologa sono considerate fonti di prova.

Ed ancora, l’art. 45 co. 6 C.d.S., statuisce che “Nel regolamento sono precisati i segnali, i dispositivi, le apparecchiature e gli altri mezzi tecnici di controllo e regolazione del traffico, nonché quelli atti all'accertamento e al rilevamento automatico delle violazioni alle norme di circolazione, ed i materiali che per la loro fabbricazione e diffusione, sono soggetti all'approvazione od omologazione da parte del Ministero dei lavori pubblici, previo accertamento delle caratteristiche geometriche, fotometriche, funzionali, di idoneità e di quanto altro necessario. Nello stesso regolamento sono precisate altresì le modalità di omologazione e di approvazione”. Pertanto, a seconda dei casi previsti, si deve procedere ad omologazione oppure ad approvazione, in via evidentemente alternativa.

La distinzione tra approvazione ed omologazione è inoltre individuabile nell’art. 192 reg att C.d.S., al quale l’art. 45 C.d.S. rinvia, perché ne descrive proprio la procedura (Sent. Giudice di Pace di Treviso del 24.05.2021). L’elemento differenziale tra di loro è la rispondenza alle prescrizioni stabilite dal regolamento di attuazione al Codice della Strada: nel caso dell’omologazione è richiesto di accertare la rispondenza e l’efficacia dell’oggetto di cui si chiede l’omologazione alle prescrizioni stabilite dal regolamento, mentre nel caso dell’approvazione dovrà trattarsi di richiesta relativa ad elementi per i quali il regolamento di attuazione non stabilisce le caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni ed in tal caso il Ministero dei Lavori Pubblici approva il prototipo seguendo, per quanto possibile, la procedura prevista dal comma secondo.

Da ciò ne deriva che soltanto nel caso in cui il regolamento al Codice della Strada stabilisca caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni per dette apparecchiature sarà possibile omologarle. In caso contrario queste ultime saranno solo approvate (Sent. Giudice di Pace di Milano del 11.02.2019; Sent. Giudice di Pace di Milano n. 5454/2021).

In sostanza, l’omologazione richiede un passaggio in più che nella semplice approvazione manca.

L’omologazione ministeriale autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio appositamente testato in un laboratorio la cui competenza oggi spetta al Ministero per lo Sviluppo Economico (cd MISE). Ha lo scopo di verificare l’efficacia e il corretto funzionamento degli autovelox e la loro rispondenza a determinate caratteristiche tecniche; in pratica, serve a conferire valore legale di prova alle fotografie scattate e alla velocità rilevata. La semplice approvazione, al contrario, risulta essere un procedimento semplificato non richiedendo la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali oppure da particolari prescrizioni previse dal regolamento.

Dunque, quale prospettiva ora per gli automobilisti ingiustamente sanzionati? Astrattamente chi ha ricevuto sanzioni a seguito delle segnalazioni degli autovelox T-EXSPEED V 2.0 può impugnare le multe ma anche chi ha già pagato le contravvenzioni elevate tramite tali apparecchi, pur non essendo più nei termini per proporre impugnazione, può attivarsi per tutelare i propri diritti e, una volta concluse le indagini, agire per il risarcimento dei danni subiti.

La questione appare abbastanza delicata soprattutto perché si va profilando un conto salato per le casse degli enti locali e le associazioni dei consumatori sono sul piede di guerra per far accertare eventuali danni erariali e le relative responsabilità; seguiranno sicuramente sviluppi sul tema.

Per ulteriori informazioni e chiarimenti su casi specifici, potete contattare lo Studio Baroni & Partners che metterà a disposizione professionisti esperti nella materia.


Contatti
Autore: Avv. Sabrina Mellini 22 aprile 2025
La recente sentenza della Corte Costituzionale pubblicata il 21 marzo scorso, ha sancito che anche le persone singole (che hanno lo stato libero e quindi non sono vincolate dal matrimonio-art 86 c.c.-) possono adottare minori stranieri, residenti all’estero, in situazione di abbandono. La Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 29-bis, comma 1, della Legge numero 184 del 1983 (Diritto del minore ad una famiglia) nella parte in cui non include le persone singole, fra coloro che possono adottare un minore straniero. L’art. 29-bis, comma 1, prevede che « le persone residenti in Italia, che si trovano nelle condizioni prescritte dall’articolo 6 e che intendono adottare un minore straniero residente all’estero, presentano dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza e chiedono che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione ». In particolare, il citato art. 6 stabilisce, al comma 1, che « l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto .” Preme precisare che la questione esaminata dalla Corte Costituzionale con la sentenza sopra citata, attiene unicamente alla condizione della persona che ha lo stato libero, in quanto non è vincolata da un matrimonio (art. 86, primo comma, prima parte, del codice civile). Non rientra, invece, nel perimetro del giudizio della Consulta la condizione della persona che non ha lo stato libero, in quanto è parte di un’unione civile (art. 86, primo comma, seconda parte, cod. civ.). Tale questione non è stato oggetto del giudizio della Corte e, dunque, resta impregiudicata. La decisione della Corte Costituzionale trae origine dalle questioni di illegittimità costituzionale sollevate nello specifico dal Tribunale per i Minorenni di Firenze, il quale evidenziava nella propria ordinanza di rimessione alla Consulta, che la preclusione dell’adozione internazionale alle persone singole, non sarebbe più necessaria in una società democratica, dove ormai è venuta meno, a livello normativo e giurisprudenziale, l’idea che solo la bigenitorialità possa garantire la crescita armoniosa del minore. Ad avviso del Tribunale rimettente, l’esigenza di individuare, nel miglior interesse del minore, un contesto familiare armonioso e stabile non dovrebbe « necessariamente rinvenirsi nella struttura familiare composta da una coppia unita nel vincolo del matrimonio ». La norma sottoposta al giudizio di legittimità costituzionale della Consulta era proprio l’art. 29 bis comma 1 della legge 184/1983 che negava alla persona non coniugata, residente in Italia, la possibilità di presentare la dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero, con il conseguente impedimento per il Giudice competente -Tribunale per i minorenni del luogo di residenza dell’aspirante genitore adottante- di dichiarare la persona non coniugata, idonea all’adozione. La norma de qua violerebbe il fine della tutela dell’interesse del minore, nonché il diritto al rispetto della vita privata della persona singola, inteso come libertà di autodeterminazione, ovvero quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, attraverso la disponibilità all’adozione di un minore straniero. La Corte Costituzionale, dopo una disamina attenta, ha statuito che la legge sull’adozione 184/1983, è illegittima nella parte in cui non consente alla persona non coniugata, residente in Italia, di presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale del minore e, conseguentemente al Giudice, di emettere a favore della persona non coniugata, di cui siano state positivamente riscontrate le attitudini genitoriali nel corso dell’istruttoria, il decreto di idoneità all’adozione internazionale del minore medesimo . La Corte Costituzionale ha stabilito che escludere i single dal diritto di adottare un minore straniero è in contrasto, sia con i principi della nostra Costituzione e peculiarmente con gli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, che con i principi sanciti nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e nello specifico con l’articolo 8 della Convenzione predetta. Pertanto, anche i single sono stati ritenuti astrattamente idonei all’adozione internazionale e conseguentemente valutati come persone adeguate ad assicurare ai minori stranieri in stato di adottabilità, un ambiente stabile ed armonioso. Spetterà poi al Giudice competente, valutare in concreto l’idoneità dell’aspirante genitore, nonché la sua effettiva capacità di educare, istruire e mantenere il minore da adottare, tenuto conto altresì della rete famigliare del richiedente. Il desiderio del single di adottare un minore straniero, non potrà dunque più essere inteso come una mera pretesa, ma come un interesse legittimo che merita di essere tutelato dal nostro ordinamento giuridico, in forza del così detto “preminente interesse del minore” ad avere un ambiente stabile ed armonioso dove poter crescere. La Corte Costituzionale ha altresì osservato che, “nell’attuale contesto giuridico-sociale caratterizzato da una significativa riduzione delle domande di adozione, il divieto assoluto imposto alle persone singole rischia di « riflettersi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso ».” Rimane ferma l’applicabilità alla persona singola delle restanti previsioni di cui all’art. 6 della legge n. 184 del 1983. In particolare, l’adottante persona singola deve rispondere agli altri requisiti, non incompatibili con il suo stato libero, che attengono all’età e al suo «essere affettivamente idoneo e capace di educare, istruire e mantenere i minori che intenda adottare» (comma 2 del citato art. 6). Al minore adottato dalla persona singola sarà riconosciuto l’unico stato di figlio, di cui all’art. 315 cod. civ., al quale implicitamente rimanda l’art. 27 della legge n. 184 del 1983, a sua volta richiamato dall’art. 35, comma 1, della medesima legge. La Corte Costituzionale pertanto ha ritenuto che non debba più sussistere nell’ambito dell’adozione internazionale una preferenza della così detta bigenitorialità, dal momento che essa non risponderebbe più ad un «vincolo giuridico a tutela diretta del minore», ma sarebbe «semplicemente il retaggio di una supposta logica naturalistica secondo una visione dogmatica della nozione di famiglia» che ormai deve ritenersi superata. Dice la Corte Costituzionale nella sentenza 33/2025 che: “ se scopo dell’adozione internazionale è quello di accogliere in Italia minori stranieri abbandonati, residenti all’estero, assicurando loro un ambiente stabile e armonioso, l’insuperabile divieto per le persone singole di accedere a tale adozione non risponde a una esigenza sociale pressante e configura- nell’attuale contesto giuridico-sociale – una interferenza non necessaria in una società democratica .” Se hai bisogno di ulteriori informazioni sulla adozione dei minori, anche internazionale, rivolgiti al nostro studio legale per una consulenza. Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Vincenza D'Anna 11 aprile 2025
L’accesso abusivo ad un sistema informatico è previsto dal nostro codice penale come reato e disciplinato ai sensi dell’art. 615 ter c.p. Viene punito con la reclusione fino a tre anni chi abusivamente, si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Ciò che tale articolo protegge, secondo un Sentenza della Cassazione Penale n. 42021 del 2012, è il cosiddetto “domicilio digitale/informatico”, cioè quello spazio digitale (ideale e fisico) in cui sono contenuti i dati e le informazioni informatiche riguardanti la persona titolare di quel bene e le sue attività. La condotta punita riguarda sia l’introduzione abusiva in un sistema informatico protetto da misure di sicurezza; sia l’azione di permanere all’interno del sistema informatico violato, senza alcuna autorizzazione e/o titolarità e contro la volontà, espressa o tacita, del titolare del sistema medesimo, e/o, seppur con autorizzazione, ma per compiere attività e azioni non autorizzate, in violazione alle eventuali prescrizioni del titolare del sistema e comunque estranee alle proprie mansioni. Quindi viene punito non solo chi si introduca in un sistema informatico non suo senza averne alcun diritto e/o autorizzazione, ma anche chi, pur avendo una qualsivoglia autorizzazione, metta in atto attività e azioni che non rientrano nei propri compiti e che non seguano le indicazioni del titolare del sistema informatico che, come tale, ha diritto di escluderlo. Questa tipologia di reato ha però subìto nel corso degli anni diverse interpretazioni giurisprudenziali da parte della Suprema Corte. In un primo momento si è data rilevanza, ai fini della fattispecie di reato, al solo accesso al sistema informatico da parte di soggetto non autorizzato. Successivamente, la giurisprudenza della Suprema Corte ha cominciato a dare rilevanza penale anche all’attività di mantenimento del reo all’interno del sistema informatico non suo e violato. Tale orientamento si è cristallizzato e ha incluso, il comma 2, n. 1 dell'art. 615 ter c.p, affermando che il reato in esame si configura quando " il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio ", ricomprendendo in questo modo qualsiasi attività di accesso che non rientri e che non sia riconducibile alla funzione propria di pubblico rilievo. Nel 2022, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con Sent. n. 15629 del 21/01/2022, attribuisce rilevanza penale al solo profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema da parte del reo, accogliendo il principio sancito dalle Sez. Unite Casani – Sent. n. 4694/2011), in base al quale viene data rilevanza alla “condotta di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, …” mentre rimangono privi di rilievo, ai fini della configurazione del reato: “gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema". Secondo questo orientamento giurisprudenziale sembrerebbero avere rilievo ai fini penali il solo abuso oggettivo dell’accesso e della permanenza nel caso in cui il reo sia un soggetto per così dire privato; mentre rileverebbe anche l’aspetto soggettivo del reato di accesso e permanenza ad un sistema informatico, nel caso in cui il reo sia un pubblico ufficiale. Di recente la Suprema Corte ha pronunciato una sentenza la n. 40295 del 31/10/2024, in cui fornisce un vero e proprio ampliamento della fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 615 tec c.p. La Cassazione ha ampliato il concetto di “accesso abusivo” al sistema informatico, riprendendo un concetto già introdotto dalla Corte d’Appello di Firenze, il cosiddetto “accesso disfunzionale”, ovvero l’accesso caratterizzato dall’utilizzo improprio di credenziali/password/chiavi di accesso che seppur legittime vengono utilizzate per finalità non autorizzate. Ecco quindi che, se in precedenza le finalità e gli scopi non erano stati ritenuti rilevanti ai fini della configurazione del reato, adesso con una recentissima sentenza dell’ottobre 2024, la Cassazione, ritiene rilevante tale aspetto del reato, concentrandosi sulle dinamiche interne alle organizzazioni aziendali. Il titolare/dominus del sistema informatico è l’unico a decidere di escludere e/o autorizzare per determinate finalità l’accesso al proprio sistema informatico altri soggetti. Il reato si configura, quindi, anche in presenza di un accesso interno, se questo avviene violando le direttive del datore di lavoro o superando i limiti impliciti dettati dall'organizzazione aziendale. Ecco perché si consiglia sempre che all’interno dell’organizzazione aziendale siano utilizzati regolamenti dei sistemi informatici, regolamenti disciplinari, best practices organizzative, mansionari, contratti di lavoro idonei. La Corte sottolinea ancora una volta come l’accesso non giustificato sia di per sé reato, poiché consente al reo di accedere a dati e informazioni protette senza autorizzazione. Le credenziali di accesso al proprio sistema informatico sono “personali” e come tali vanno protette e non fornite ad altri soggetti. Né chi riveste ruoli apicali all’interno di un’organizzazione è giustificato ad avere le credenziali personali dei suoi sottoposti, né può accedere al sistema informatico dei suoi sottoposti, per il solo fatto di essere gerarchicamente superiore. Si consiglia di prevedere e mettere in atto delle procedure di accesso e dismissione ai sistemi informatici aziendali, tutti nessuno escluso e che sono da considerarsi “strumenti aziendali”, prevedendo ad es. in caso di necessità (assenza del dipendente e/o cessazione del rapporto di lavoro) che sia l’Amministratore di Sistema aziendale ad accedere ai predetti sistemi per estrapolare dati ed informazioni aziendali, necessari per l’ordinaria operatività aziendale. Sono quindi determinanti le direttive aziendali e il rispetto di queste ultime da parte dei dipendenti. C’è da precisare che anche quando l’accesso abusivo ad un sistema informatico non sia punibile come reato, la responsabilità civile è confermata. Per cui se gli accessi ai sistemi informatici all’interno di un’azienda sono regolamentati, le direttive ben formalizzate e disciplinate anche in aderenza ai contratti di lavoro, il personale è formato ed istruito su queste direttive e ha preso ben visione delle medesime, sono adottate misure di sicurezza rigorose, una violazione in tal senso, anche da parte dei soggetti con ruoli apicali, che devono essere i primi a rispettare le regole aziendali, determina conseguenze sul piano civile e disciplinare con sollevazione di contestazioni disciplinari e richieste risarcitorie. Avv. Vincenza D’Anna
Autore: Avv. Giacomo Graziano 3 aprile 2025
Con il termine stress si intende una risposta psicologica e fisiologica adattativa a situazioni in cui l’individuo non si sente in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative dell’ambiente, comportando modificazioni fisiologiche, cognitive e comportamentali; lo stress di per sé non è configurabile come una patologia, piuttosto va inteso come uno “stimolo” volto al superamento di un compito o sfida da parte dell’essere umano. Diviene patologico nel momento in cui le richieste/sollecitazioni esterne superano le capacità, risorse ed esigenze dell’individuo innescando delle reazioni avverse, più o meno invalidanti, che se protratte nel tempo, possono assumere connotazioni patologiche. Nel caso in cui il nesso causale sia riconducibile al lavoro, allora viene comunemente utilizzata la definizione “stress lavoro-correlato”. Tra le cause determinanti lo stress lavoro-correlato ritroviamo i fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli aspetti relativi alla progettazione, organizzazione e gestione del lavoro, nonché ai rispettivi contesti ambientali e sociali, che dispongono del potenziale per dar luogo a danni di tipo fisico, sociale o psicologico. È indubbio che gli aspetti individuali possano incidere direttamente o indirettamente sulle modalità di esposizione e impatto dei rischi per la salute e sicurezza in generale, e di quelli psicosociali in particolare, tra questi l’appartenenza al “genere” rappresenta ancora oggi uno dei fattori principali di discriminazione. Questa maggiore consapevolezza, nel nostro Paese, si concretizza nel D.lgs. n. 81/2008, art. 28, co. 1, all’interno quale si riporta che la valutazione dei rischi deve riferirsi a tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi. Il rischio stress lavoro-correlato e gli altri rischi psicosociali rappresentano sempre di più una minaccia per la salute e sicurezza dei lavoratori, con una maggior esposizione del genere femminile. Purtroppo, all’interno dell’organizzazione di lavoro ancora oggi si evidenziano delle differenze rispetto all’appartenenza di genere: le donne, infatti, ricoprirebbero, proporzionalmente, ruoli con minore responsabilità e autonomia, sarebbero più esposte a lavori precari, monotoni e ripetitivi e impiegate di meno in attività lavorative che richiedono problem solving e creatività, infine sarebbero maggiormente evidenti discrepanze retributive e nello sviluppo di carriera. Altro aspetto da considerare è anche quello rappresentato dalla discriminazione, violenza e molestie nei luoghi di lavoro che non accenna a diminuire. La violenza nei luoghi di lavoro può essere definita come tutti quei comportamenti che si verificano quando uno o più individui vengono aggrediti in contesto di lavoro, con azioni possono essere fisiche o psicologiche con ricadute sull’individuo rilevanti. Le molestie vengono intese come quelle azioni che si verificano quando uno o più individui subiscono ripetutamente e deliberatamente abusi, minacce e/o umiliazioni in contesto di lavoro; esse comprendono, inoltre, tutti quei comportamenti offensivi o espressioni di disprezzo basati su stereotipi riguardanti persone con determinate caratteristiche individuali. Spesso assumono una connotazione sessuale, ovvero riguardano avances verbali e/o fisiche indesiderate, dichiarazioni dispregiative sessualmente esplicite e discriminazioni che impattano negativamente sulla dignità della persona e interferiscono nelle prestazioni lavorative. Le conseguenze sono allarmanti e hanno portato molte donne a cambiare volontariamente lavoro o a rinunciare alla carriera; altre sono state licenziate o messe in cassa integrazione o non sono state assunte. Gli esiti, derivanti dall’esposizione al rischio stress lavoro correlato, sulla salute e sulla sicurezza sono ormai da tempo evidenti e oggetto di studio e monitoraggio. La prolungata esposizione ai fattori di rischio, l’intensità di tale esposizione, le caratteristiche individuali e i fattori di protezione individuali e organizzativi concorrono, infatti, all’insorgenza o meno di conseguenze psicofisiche negative, anche invalidanti. La differenza di genere ricopre inoltre un ruolo determinante anche in merito agli esiti sulla salute, infatti, le donne sarebbero più esposte a disturbi psicofisici come, ad esempio, quelli ansioso-depressivi e a manifestazioni psicosomatiche come, ad esempio, le reazioni cutanee, disturbi muscoloscheletrici e disturbi gastroenterici, oltre allo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare, compromissione del sonno e della sfera affettiva. Un approccio consapevole al tema della salute e sicurezza sul lavoro non può prescindere dal riconoscimento delle specifiche caratteristiche legate alle differenze di genere e, sebbene l’attenzione del Paese al riguardo sia cresciuta, risulta avere tuttora carattere parziale e disomogeneo. Pertanto, investire sulla salute e sicurezza dei lavoratori anche in ottica di genere, adoperandosi sullo sviluppo di una cultura improntato sulla salute e sicurezza, con un sistema formativo integrato, congiuntamente a politiche e iniziative da parte delle istituzioni e delle organizzazioni, significa investire non solo sul benessere delle persone operanti ma anche sull’efficacia ed efficienza delle aziende e del Paese. Avv. Giacomo Graziano
Autore: Avv. Vincenza D'Anna 27 marzo 2025
Spesso ci viene chiesto se sia legittimo registrare una conversazione e se non sia una violazione della privacy dei nostri interlocutori che vengono registrati. Ebbene, a riguardo la Corte di Cassazione si è già pronunciata in passato e proprio in relazione agli aspetti privacy, lo fa anche con una Ordinanza recente del settembre 2024, n. 24797/2024, il cui oggetto del contendere è una registrazione effettuata da un dipendente e relativa ad una conversazione avuta dallo stesso con i rappresentanti dell’azienda. Nel procedimento viene coinvolta anche l’Autorità Garante della Privacy, che in sede di reclamo proposto dall’Azienda, aveva respinto la richiesta di cancellazione della predetta registrazione, in quanto si trattava di operazioni di trattamento svolte per esclusive finalità di contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. L’Azienda propone ricorso dinanzi al Tribunale di Venezia che pronuncia una sentenza in cui statuisce che il trattamento dei dati è avvenuto in violazione dei principi di cui all’art. 5 del GDPR, in quanto la registrazione è stata eseguita senza che al momento vi fossero esigenze difensive dell’autore della registrazione e che sebbene esistente un contenzioso dei dipendenti verso l’azienda, la registrazione è stata conservata e ceduta ai colleghi dall’autore a distanza di anni per intentare le cause all’azienda. Il dipendente presenta ricorso in Cassazione. I dirigenti presentano controricorso e così anche il Garante promuove controricorso. Ovviamente tutti con motivi diversi. La Suprema Corte, letti, ricorso e controricorsi, emette Ordinanza così motivata: Vengono risolte dapprima le questioni preliminari relative sull’ammissibilità del ricorso incidentale del Garante ritenuto tardivo e ammesso dalla Corte con rigetto delle eccezioni dei dirigenti aziendali e con precisazione del ruolo pubblico ed amministrativo della predetta Autorità di controllo che mira a tutelare interessi pubblici e ad assicurare la corretta applicazione della normativa vigente; Nel merito dei motivi di ricorso: a) Il ricorrente principale invoca, con il primo motivo di ricorso, l’applicazione dell’art. 5 del D.lgs. 196/2003, rilevando che sotto la vigenza di questa normativa (fino al settembre 2018) si era formata una giurisprudenza uniforme, secondo cui il soggetto che effettua questo trattamento dei dati non è soggetto all’applicazione di queste disposizioni normative se non sono destinate alla diffusione sistematica, ma conservano il carattere personale. La registrazione, infatti, era stata effettuata nel novembre 2016, per cui era d’obbligo l’applicazione nel Codice Privacy e il carattere professionale della registrazione non determina come finalità quella diffusione sistematica dei dati ma il trattamento rimane personale. b) Il ricorrente, con il secondo motivo di ricorso, eccepisce la violazione degli artt. 5,6,9,21 del Regolamento UE – GDPR 2016/679 che ha rivoluzionato e modificato il Codice Privacy e che ha permesso modifiche ed integrazioni a quest’ultimo grazie all’emanazione del D. Lgs. 101/2018. Infatti, ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. d), il ricorrente sostiene erroneo il giudizio del Tribunale di Venezia perché la registrazione avvenuta tra presenti è legittima così come è legittima la consegna a terzi per il perseguimento di un legittimo interesse a tutela di un diritto fondamentale dell’interessato, ovvero la “difesa in giudizio”. Tale motivo di ricorso veniva avallato in toto dalla difesa del Garante. c) Con il terzo motivo, il ricorrente lamentava il fatto che il Tribunale non avesse ascoltato integralmente la registrazione; d) Con il quarto motivo, il ricorrente lamentava l’erronea applicazione da parte del Tribunale del decreto ministeriale di regolamentazione degli onorari e spese legali di giudizio. La Corte ritiene i primi tre motivi fondati e statuisce che la sentenza del Tribunale è errata in quanto dava una lettura erronea della normativa applicabile al caso oggetto del procedimento e cassa il provvedimento. La giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che il diritto di difesa in giudizio consente, ai sensi dell’art. 24 lett. f) del D. Lgs. 196/2003, di prescindere dal consenso della parte interessata, a condizione che i dati siano trattati e conservati per la specifica finalità – della difesa in giudizio – e per tutte quelle attività anche precedenti al giudizio, ma prodromiche all’instaurazione dello stesso (Cass. 33809 del 12/11/2021). La liceità del trattamento non è relativa al chi o al come, ma rileva la finalità che è quella di difendere un diritto fondamentale dell’interessato. Per cui gli organi e le autorità giudiziarie devono comporre le esigenze di riservatezza con quelle del giusto processo (Cass. 9314 del 04/04/2023). Se poi si guarda ai testi degli artt. 4 e 47 del GDPR, nonché al Considerando 20 del medesimo regolamento, non si può che aderire alla motivazione fornita dalla Corte di Cassazione. La stessa Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 02/03/2023, stabilisce che nel caso in cui dati personali di terzi vengono utilizzati in un giudizio, dovrà essere il Giudice nazionale a ponderare il caso specifico con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità. In conclusione, la giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nel ritenere che non è soggetta a comunicazione preventiva e a preventivo consenso l’attività di registrazione di una conversazione tra soggetti presenti per l’utilizzo in sede giudiziaria a tutela di diritti ed interessi fondamentali per l’interessato. Tali principi erano sanciti nel vecchio Codice Privacy ma rimangono forti e vigenti anche nel Nuovo GDPR 2016/679 entrato in vigore nel maggio 2018. Per cui è assolutamente legittimo il trattamento dei dati personali oggetto di una registrazione tra presenti, senza raccolta di consenso degli interessati, purché effettuato nel rispetto del criterio di “minimizzazione” ove sia indispensabile per la tutela di interessi vitali della persona che li divulga o della sua famiglia (Cass. n. 9922 del 28/03/2022). Si allega Ordinanza Cass. n. 24797/2024 Avv. Vincenza D’Anna
Autore: Avv. Sabrina Mellini 5 marzo 2025
Innanzitutto, occorre precisare cosa debba intendersi per conviventi di fatto. La legge n. 76/2016, meglio conosciuta come legge Cirinnà, definisce i conviventi, quali persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. Se il convivente defunto risulta essere stato proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa, per due anni, ovvero per un periodo pari alla convivenza se detta convivenza è superiore a due anni e comunque, non oltre i cinque anni. Inoltre, se nella stessa casa comune, coabitano con il convivente di fatto superstite, figli minori o figli disabili dello stesso, il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza, per un periodo non inferiore a tre anni. Questo quanto stabilisce l’art. 1 comma 42 della legge 76/2016. E tutto ciò anche in presenza di eredi. Si ritiene che il tempo stabilito dalla legge sia ragionevolmente sufficiente a consentire al convivente di fatto superstite, di trovare una altra soluzione abitativa, di fronte alle “pretese restitutorie” degli eredi del defunto. Il diritto di abitazione prevede ovviamente anche il diritto di uso dei mobili che la arredano se di proprietà del defunto, ovvero di proprietà comune. Il diritto di abitazione nella casa comune di residenza, tuttavia viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella stessa, o in caso di matrimonio, di unione civile o di una nuova convivenza di fatto. Questo perché, intraprendere da parte del convivente di fatto superstite, un nuovo progetto di vita, è del tutto incompatibile con l’esigenza di tutela, connessa al precedente rapporto sentimentale. Ma qual è la natura del diritto di abitazione spettante al convivente superstite? Non si tratta di un diritto reale, qual è quello riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al coniuge superstite, bensì di un mero diritto personale di godimento che il convivente di fatto superstite acquista in forza della così detta “ comunanza di vita ” attuata, tra le altre cose, anche attraverso la coabitazione nell’immobile che entrambi i conviventi avevano scelto quale comune residenza. Il convivente superstite, per tutelare il suo diritto contro pretese di terzi soggetti e cioè nel caso in cui si verifichi un’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa compiuta in suo danno da altri soggetti (ad es. gli eredi), ha la possibilità di avvalersi della così detta tutela possessoria (cfr. Cassazione, sezione II, sentenza n. 7214 del 21 marzo 2013; sezione II, sentenza n. 7 del 2 gennaio 2014). Va altresì precisato che il diritto di abitazione viene riconosciuto al convivente di fatto anche nel caso in cui la coppia non abbia precedentemente provveduto a formalizzare la propria relazione presso il Comune di residenza, ossia anche nel caso in cui non si sia recata presso l’Ufficio Anagrafe del Comune di residenza e abbia dichiarato di coabitare presso la medesima unità immobiliare con susseguente registrazione della predetta dichiarazione da parte dell’ufficio anagrafe che rilascia formalmente il certificato di convivenza. Pertanto, se la convivenza non dovesse essere stata dichiarata all’anagrafe, lo status di convivente, potrà essere riconosciuto sulla base di una mera autocertificazione prodotta dal convivente superstite, anche nel caso in cui questi non abbia la residenza anagrafica nella casa di proprietà del defunto. Significativa è la risposta della Agenzia delle Entrate del 12/10/2018 n. 37, con cui la stessa ha precisato che, per il riconoscimento del diritto di abitazione, il convivente di fatto superstite che non risiede anagraficamente nell’immobile del convivente defunto, può dimostrare il suo stato di convivente anche a mezzo di autocertificazione ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000. Se hai bisogno di una consulenza in materia di diritto successorio rivolgiti al nostro studio. Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Giacomo Graziano 27 febbraio 2025
Il Bed & Breakfast è un’attività che consiste nel concedere a terzi l’uso di una o più camere del proprio appartamento verso un determinato corrispettivo e per un periodo più o meno breve, tenuto presente il particolare settore in cui tali contratti trovano applicazione e del tipo di soggiorno per lo più precario e mai stabile nel tempo. Dunque, si indica una forma di dimora particolare ed informale; la prestazione fornita consiste nel pernottamento e nella prima colazione, in ciò differenziandosi dall’affittacamere. Le prestazioni accessorie, prima tra tutte la colazione , rappresentano comunque l’elemento indispensabile non solo per configurare l’attività di B&B, ma anche per contraddistinguerla dalla normale locazione dell’alloggio, dove la persona del locatore, a differenza della prima, resta assolutamente estranea alla vita del conduttore. Si deve trattare in ogni caso di una attività a conduzione familiare, condotta cioè da privati all’interno della propria abitazione e dimora, ovvero il luogo in cui si vive abitualmente e trova disciplina prevalentemente nelle leggi regionali che, direttamente o meno, si riportano poi alla L. n. 135/2001. Il numero massimo di stanze e posti letto adibite al servizio varia a seconda della legge regionale; in genere c’è un limite di 3 stanze e 6 posti letto, ma alcune regioni ne consentono di più. Anche le superfici delle camere sono disposte dalle leggi regionali. Vanno naturalmente rispettati requisiti igienico-sanitari e bisogna essere in possesso del certificato di abitabilità e di conformità di tutti gli impianti alle norme vigenti in materia. Normalmente per aprire un B&B è sufficiente comunicare al SUAP (Sportello Unico Attività Produttive) sul cui territorio insistono le strutture e gli immobili da destinare all’attività, una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ai sensi dell’art. 19 della L. n. 241/1990. In linea generale, per l’esercizio dell’attività di Bed & Breakfast il soggetto interessato deve essere in possesso dei seguenti requisiti: a) i requisiti previsti dal R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza); b) i requisiti previsti in materia di prevenzione incendi ai sensi del decreto del Ministro dell’Interno 9 aprile 1994 (Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la costruzione e l’esercizio delle attività ricettive turistico-alberghiere), qualora richiesti; c) i requisiti igienico-sanitari relativi alla struttura, previsti dalla normativa vigente. Il SUAP, ricevuta la segnalazione certificata di inizio attività, ne trasmette tempestivamente copia, sempre in via telematica, al Comune, all’Azienda Sanitaria Locale che esercita l’attività di vigilanza e, a fini informativi, ne trasmette altresì copia alla Provincia e all’agenzia di accoglienza e promozione turistica locale competenti per territorio. Per somministrare la prima colazione occorre presentare all’ASL competente territorialmente una Notifica sanitaria relativa alla sicurezza alimentare dei cibi messi a disposizione degli ospiti. Il modello per la notifica di inizio, variazione o cessazione dell’attività è rinvenibile sul sito internet regionale; si rappresenta che la colazione fornita deve essere composta di cibi preconfezionati poiché i B&B non sono autorizzati a preparare, manipolare e servire alimenti, salvo diverse disposizioni regionali. Dal punto di vista fiscale (secondo la risoluzione del Ministero delle Finanze n. 155 del 13 ottobre 2000) non è necessario aprire una partita IVA in quanto l’attività di B&B deve essere esercitata in modo saltuario, ed è sufficiente il codice fiscale del titolare da apporsi anche sulla ricevuta (non fiscale) che è obbligatorio rilasciare al momento del pagamento. Al fine di documentare la riscossione delle somme deve essere rilasciata una ricevuta di quietanza (anche utilizzando i blocchetti prestampati che si trovano comunemente in commercio), redatta in duplice copia, con numerazione progressiva, data di emissione, corrispettivo incassato, quantità di giorni di permanenza del cliente, timbro e firma. Sulle ricevute di importo superiore ad euro 77,47 deve essere applicata la marca da bollo da euro 2,00. Trattandosi per legge di attività saltuaria, è inoltre obbligatoria la chiusura per alcuni mesi all’anno e non sono consentiti soggiorni per più di 30 giorni consecutivi. Molti gestori di B&B decidono di incrementare le proprie entrate offrendo ai propri ospiti attività alternative come passeggiate naturalistiche, corsi di cucina e altre attività legate al territorio. Avv. Giacomo Graziano
Autore: Avv. Vincenza D'Anna 21 febbraio 2025
Nuovo DDL – L. 13 dicembre 2024 n. 203 ENTRATA IN VIGORE IL 12 GENNAIO 2025 Continuando la nostra disamina tra le Novità della recente Normativa sul Collegato Lavoro, in questo articolo parleremo di: 13. Art.7 della Legge : Sospensione Decorrenza Termini degli adempimenti fiscali e contributivi per liberi professionisti. Vengono sospesi i termini relativi agli adempimenti fiscali e contributivi, nel caso di parto o di interruzione della gravidanza avvenuta oltre il terzo mese dal suo inizio. La sospensione decorre, in caso di parto, dall’ottavo mese di gestazione fino al trentesimo giorno successivo al parto; in caso di interruzione della gravidanza, fino al trentesimo giorno successivo all’interruzione medesima. Medesima sospensione si applica anche al libero professionista che sia temporaneamente impossibilitato a svolgere la sua professione, per infortunio o malattia grave, ricovero ospedaliero d’urgenza, del proprio figlio minorenne o per intervento chirurgico dello stesso e debba assistere il figlio minore. Il tutto previa trasmissione, agli Enti di riferimento che devono applicare la sospensione dei termini di decorrenza degli adempimenti, entro 15 giorni dall’evento, di certificato medico attestante tute le informazioni utili e necessarie, nonché copia dei mandati professionali assegnati al professionista, perché l’Ente applichi la sospensione predetta. 14. Art.23 della Legge : Rateizzazione debiti contributivi. Viene introdotta la possibilità per gli Enti INPS e INAIL di autorizzare la rateizzazione dei debiti contributivi che non sono ancora stati affidati alla riscossione e per i casi previsti dal Decreto del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, ancora da emanarsi, previa domanda dell’interessato e con la possibilità di effettuare fino ad un massimo 60 rate. La misura, avrà valore dal 1° gennaio 2025, e mira ad una regolarizzazione spontanea delle posizioni contributive insolute o che potrebbe diventare tali, aiutando le imprese e i datori di lavori in difficoltà economiche. 15. Art.1 della Legge : Novità in materia di Salute e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro: La Sicurezza sul Lavoro è già ampiamente disciplinata, ma è materia che va attenzionata e tenuta sotto controllo, perché le norme non rimangano solo scritte ma applicate dalle imprese e dai lavoratori: In particolare: Lett. b): Ministero del Lavoro redigerà annualmente una relazione da fornire alle Camere sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro, e dovrà prevedere anche l’indicazione di eventuali misure migliorative delle condizioni di sicurezza ancora precarie; Lett. d) punto 1.1: questa lettera estende una misura di sicurezza che già per molte imprese è un obbligo e/o è prevista nel CCNL di settore: la cosiddetta “visita pre-assuntiva”. Cioè, la possibilità per l’impresa di effettuare una visita medica con il medico competente aziendale, prima dell’assunzione, in modo da meglio valutare l’idoneità alla specifica mansione a cui il lavoratore sarebbe destinato una volta assunto. Lett. d) punto 1.3: solitamente dopo assenze dal lavoro superiori a 60 giorni, prima di riammettere il lavoratore nell’impresa, il datore è obbligato a sottoporlo a visita dal medico competente aziendale. Ebbene, con questo nuovo dettato normativo, vi è l’opportunità che tale visita se effettuarla o non effettuarla, viene lasciata alla libera valutazione del medico competente aziendale; Lett. d) punto 2.: Rimando nell’ambito della visita del medico competente aziendale, viene previsto, in modo innovativo, che, qualora il sia necessario sottoporre il lavoratore ad esami clinici e diagnostici, se il lavoratore li ha già effettuati e tali esami sono presenti nella cartella clinica del lavoratore, il medico competente può evitare di farglieli ripetere; Lett. e): Questa novità riguarda tutte quelle attività lavorative svolte in ambienti chiusi, in sotterranei o semi sotterranei, e qualora tali lavorazioni diano luogo ad emissioni nocive per il lavoratore: In tutti questi casi, per poter svolgere attività in tali luoghi, il datore di lavoro deve comunicare, con pec, all’Ispettorato del lavoro competente territorialmente, l’utilizzo dei locali e comunicando contestualmente tutta la documentazione necessaria che dimostri il rispetto dei requisiti di idonee condizioni di aerazione, illuminazione e microclima. I locali potranno essere utilizzati entro 30 giorni dall’avvenuta comunicazione, salvo casi espressi di divieto. La documentazione da produrre è indicata in apposita Circolare dello stesso Ispettorato – INL, che alleghiamo per Vs. conoscenza, con anche l’Allegato IV del D. Lgs. 81/2008 in materia di requisiti dei luoghi di lavoro. Avv. Vincenza D'Anna
Autore: Avv. Sabrina Mellini 12 febbraio 2025
Diritto di abitazione della casa famigliare riconosciuto dall’art. 540, II comma c.c., al coniuge superstite. Cosa accade alla casa famigliare quando un coniuge muore? Il coniuge superstite ha dei diritti sull’immobile in questione, indipendentemente dalla successione mortis causa? Con l’apertura della successione mortis causa , il coniuge superstite diviene titolare di un diritto reale ed in particolare del diritto reale di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e ciò, non a titolo successorio “derivativo”, ma in forza di un diverso titolo costitutivo. Il titolo in forza del quale il coniuge superstite acquista il diritto reale di abitazione sulla casa famigliare ed il diritto d’uso sui mobili che la arredano, è fondato, sic et simpliciter , sulla qualità di coniuge. Questo significa che quand’anche il coniuge superstite dovesse rinunciare all’eredità del coniuge defunto, ovvero, ci fosse un testamento in cui la casa famigliare venisse attribuita insieme ai mobili che la arredano, a favore di terzi, il coniuge superstite potrà invocare “ ipso iure ” l’acquisto, sia del diritto di abitazione che del diritto di uso dei mobili, senza dover ricorrere all’azione di riduzione. Cosa dice l’art. 540, II comma c.c.? L’art. 540, II comma c.c. statuisce che : “Al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.” Qual è la ratio della norma? Il nostro legislatore con la norma de qua, ha voluto tutelare il coniuge sopravvissuto, sia sul piano patrimoniale che su quello etico-sentimentale ed evitargli così i danni che la ricerca di un nuovo alloggio potrebbe comportare alla stabilità delle sue abitudini di vita. È bene precisare che per casa famigliare deve intendersi la sola casa adibita a residenza familiare e cioè l'immobile in cui i coniugi abitavano insieme stabilmente prima della morte del de cuius; deve pertanto trattarsi dell’immobile destinato per comune volontà dei coniugi, a principale luogo di esercizio della vita matrimoniale (cfr. art. 144 c.c.). Il diritto di abitazione, non potrà mai estendersi ad un ulteriore e diverso immobile, autonomo rispetto alla sede della vita domestica ossia non utilizzato per le esigenze abitative della “comunità familiare”. La giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha stabilito che il diritto di abitazione non può comprendere due (o più) residenze alternative, ovvero due (o più) immobili di cui i coniugi avessero la disponibilità e che usassero in via temporanea, in quanto la nozione di “casa adibita a residenza familiare” corrisponde esclusivamente “ all’alloggio costituente, se non l'unico, quanto meno il prevalente centro di aggregazione degli affetti, degli interessi e delle consuetudini della famiglia “(ex plurimis : Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 7128 del 10 marzo 2023) (Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 4088 del 14 marzo 2012). Il diritto di abitazione è bene ricordarlo, è opponibile al creditore pignoratizio di un qualsiasi coerede anche nell’ipotesi in cui tale diritto non sia stato trascritto. La Suprema Corte ha in più occasioni confermato l’esclusione della necessità della trascrizione del diritto di abitazione ex art. 540 c.c. ai fini della sua opponibilità al creditore, aggiudicatario in sede di asta di una quota di comproprietà dell'immobile appartenente ad un coerede. Il diritto di abitazione sancito dall'art. 540 c.c. in favore del coniuge superstite, sussiste tuttavia solo se l’immobile adibito alla residenza famigliare, sia di proprietà del " de cuiu s" ovvero in comunione tra questi ed il coniuge sopravvissuto, mentre non sorge ove l’immobile sia in comunione tra il coniuge deceduto ed un terzo; in tale ultima ipotesi peraltro, non spetta al coniuge superstite neppure l'equivalente monetario del predetto diritto, nei limiti della quota di proprietà del defunto. I diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la arredano, dunque presuppongono, per la loro concreta realizzazione, l'appartenenza della casa famigliare e del relativo arredamento, al de cuius in esclusiva, o in comunione a costui e all'altro coniuge, non potendo trovare applicazione l’art. 540 II comma c.c. nel caso di comunione degli stessi beni (immobile ed arredi) tra il coniuge defunto ed altri soggetti . È bene altresì precisare che i diritti di abitazione e d'uso riservati al coniuge superstite dall'art. 540, comma II c.c., non spettano al coniuge separato senza addebito, per evidenti ragioni; infatti, se è vero che il coniuge separato fino alla sentenza di divorzio mantiene il suo status di coniuge, è altresì vero che lo stesso non abita più nella casa famigliare, essendo stato autorizzato dal Giudice a trasferire la propria residenza altrove. Inoltre, secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, ai diritti di uso e di abitazione previsti dall’art. 540 c.c., non si applicano le norme di cui agli artt. 1021, 1022 c.c. Ad esempio, se in costanza di matrimonio era l’intera villa, ad essere utilizzata quale abitazione famigliare, è questa che va necessariamente qualificata come “casa familiare” ed è su di essa che il coniuge superstite è legittimato ad esercitare il diritto di abitazione, a prescindere dalla situazione dell’immobile per come risulta dichiarata in catasto ed al fisco. Inoltre, l’eventuale successore nella nuda proprietà non può costringere il coniuge superstite a concentrare l’esercizio del suo diritto di abitazione e di uso del mobilio, solo sulla parte dell’immobile che risulta sufficiente a soddisfare lo stretto bisogno “dell’alloggio”. Inoltre, è bene precisare che le successive scelte del coniuge superstite, di consentire l'utilizzazione del bene al uno dei figli e ad altri congiunti, restringendo il proprio diritto reale a una parte dell’immobile, non potranno configurare quale causa di estinzione, neppure parziale, dei diritti acquistati ai sensi dell'art. 540, comma 2, c.c. E per il convivente di fatto, superstite, cosa è previsto? Lo scopriremo nel prossimo articolo. Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Giacomo Graziano 5 febbraio 2025
Il Tribunale di Napoli, con sentenza del 18 giugno 2024, aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui al proprietario di un veicolo circolante privo di assicurazione per la responsabilità civile automobilistica non spetta alcun risarcimento per le lesioni ricevute dal conducente in conseguenza del sinistro occorsogli. Il rigetto della domanda esaminata dal Tribunale è conseguenza dell’illecito comportamento contrastante con quanto previsto dall’art. 193, co. 1 Codice della Strada (C.d.S.) in base al quale, i veicoli a motore senza guida di rotaie, compreso i filoveicoli ed i rimorchi, non possono essere posti in circolazione sulla strada senza la copertura assicurativa, a norma delle vigenti disposizioni di legge sulla responsabilità civile verso terzi. Il Tribunale napoletano perviene al rigetto della richiesta dell’infortunato condividendo l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui non può accordarsi il risarcimento per la lesione di un bene, quando il bene medesimo si trovi in una situazione contra legem , cioè contraria alla legge. In questa particolare ipotesi, la lesione sarebbe da considerarsi ingiusta, visto che lo Stato non può tutelare un soggetto che abbia accettato il rischio di mettersi alla guida di un veicolo non coperto da assicurazione, realizzando un comportamento che fuoriesce dall’oggetto assicurativo coperto dalla polizza. A riguardo, occorre distinguere l’ipotesi in cui il sinistro stradale sia causato dal conducente o proprietario del veicolo sprovvisto di copertura assicurativa dal caso opposto in cui il veicolo che provoca il sinistro sia regolarmente assicurato, mentre non lo è quello che lo subisce. Infatti mentre nella prima ipotesi, chi si trova alla guida di un veicolo soggetto all’obbligo di stipulare una polizza r.c.a. deve risarcire di tasca propria i danni causati a persone od a cose , quale responsabile civile, anche quando interviene il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, il quale, dopo avere soddisfatto il danneggiato, ha titolo per rivalersi ex art. 2055 c.c. sul proprietario e sul conducente del veicolo responsabile del sinistro; a diversa conclusione si perviene nella seconda ipotesi in cui, l’assicuratore è tenuto a risarcire i danni anche a chi è privo della polizza, come ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. n. 1179/2022). In definitiva è di chiara evidenza che le conseguenze derivanti dalla circolazione di un veicolo sprovvisto di copertura assicurativa ricadrebbero non soltanto sulla parte danneggiata che ha ragione, ma finanche su un qualsiasi terzo trasportato, il quale, non è certo tenuto ad informarsi prima di accettare un “passaggio in macchina” se il vettore sia in regola con l’assicurazione per la r.c.a. Avv. Giacomo Graziano
Autore: Avv. Vincenza D'Anna 2 febbraio 2025
Nuovo DDL – L. 13 dicembre 2024 n. 203 ENTRATA IN VIGORE IL 12 GENNAIO 2025 Continuando la nostra disamina tra le Novità della recente Normativa sul Collegato Lavoro, in questo articolo parleremo di: 8. Art. 6 della Legge: Cassa integrazione e attività lavorativa: si tratta di una grossa novità, infatti il lavoratore che è stato collocato dall’imprese in “Cassa Integrazione”, adesso, PUO’ svolgere attività di lavoro sia in forma subordinata, presso altra impresa, sia in forma autonoma, previa comunicazione “tempestiva” all’INPS dell’inizio della nuova attività. Chiaramente, in questo periodo, il lavoratore, percependo un reddito da altro lavoro subordinato o da attività d’impresa, non percepirà il trattamento di integrazione salariale previsto per il periodo di Cassa Integrazione. Si tratta sicuramente di incentivazione in favore dei lavoratori a trovare altre opportunità al contempo tutelandoli permettendogli di conservare il posto di lavoro originario. Dal lato delle imprese e dello Stato, è sicuramente una disposizione normativa che mira a ridurre l’incidenza del costo della Cassa Integrazione sulle casse statali dell’INPS. 9. Art.8 della Legge: Fondi di solidarietà: Sia ha un ampliamento delle risorse che riguardano i Fondi di Solidarietà Bilaterali costituiti dopo il 1° maggio 2023: infatti, confluiranno all’interno di questi fondi le risorse già accumulate presso il fondo di integrazione salariale (FIS) da parte di imprese facenti parte del settore a cui fa riferimento ciascuno dei predetti fondi bilaterali. Verranno emessi, dei Decreti attuativi da parte del Ministero del Lavoro e di quello dell’Economia. 10. Art.9 della Legge: Formazione lavoratori somministrati - All’art. 9 sono previste disposizioni volte a favorire una gestione flessibile delle risorse dei fondi bilaterali Formatemp e Ebitemp per la formazione e integrazione al reddito dei lavoratori somministrati a tempo determinato e indeterminato. 11. Art. 20 della Legge: Conciliazioni telematiche: In materia di conciliazioni di lavoro, è possibile che si svolgano in via telematica attraverso sistemi e collegamenti audiovisivi, al fine di semplificare la procedura, in mod che possa essere accessibile a tutti e con costi sensibilmente ridotti. Vengono comunque mantenute e ritenute valide le procedure in atto e quelle in presenza. 12. Art. 2 della Legge: Semplificazioni ricorsi INAIL: Vengono semplificate le procedure relative ai ricorsi per gli infortuni sul lavoro, e relativi all’applicazione delle tariffe dei premi assicurativi. Sono sostituiti alcuni articoli del D. Lgs. 23 febbraio 2000 n. 38, relativi ai ricorsi proposti dal datore di lavoro, in quali circostanze e in che modalità. Nei prossimi articoli affronteremo le altre novità del Collegato Lavoro. Avv. Vincenza D’Anna