Nell’ipotesi in cui un soggetto riceva un immobile in donazione, potrebbe essere costretto a rapportarsi con aspetti riguardanti la materia della successione ereditaria.
Infatti, la legge riserva a favore di determinati soggetti, detti eredi legittimari, ovvero il coniuge, i figli (oppure gli ascendenti del defunto quando non vi sono figli), una quota di eredità detta “quota di legittima” della quale essi non possono essere in alcun modo privati.
Ebbene, gli eredi legittimari che ritengono lesa la propria quota di legittima da una o più donazioni fatte il vita dal defunto, hanno la possibilità di intraprendere una causa giudiziaria
disciplinata dall'art. 563 cc che consente loro di chiedere la reintegrazione della quota di legittima mediante la riduzione delle donazioni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre
(cosiddetta “quota disponibile”). In particolare:
1. Gli eredi legittimari possono esercitare l’azione di riduzione nei confronti di coloro che hanno ricevuto la donazione
(detti donatari) con lo scopo di far dichiarare l’inefficacia (totale o parziale) della donazione che eccede la quota di cui il donante poteva disporre, entro il termine di 10 anni dall’apertura della successione;
2. Sempre gli stessi eredi legittimari potranno introdurre una azione di restituzione dei beni donati nei confronti di terzi acquirenti del bene donato entro 20 anni dalla trascrizione della donazione. Trascorso questo termine l'azione non avrebbe più alcuna efficacia nei confronti dei terzi acquirenti.
Legittimati passivi dell’azione di restituzione sono coloro che, nell’eventuale serie dei trasferimenti dell’immobile “sono proprietari al momento dell’esercizio dell’azione di restituzione” (Cass. n. 2824/1960).
L’acquirente di un bene immobile che subisce entro 20 anni l’azione di restituzione, può liberarsi dall’obbligo di restituzione del bene pagando l’equivalente in denaro
(art. 563, co. 3 c.c.). Si tratta di un potere di riscatto riconosciuto dalla legge al terzo acquirente che gli consente di estinguere l’azione stessa. Infatti, attraverso l’esercizio della facoltà di riscatto, il terzo acquirente ha la possibilità di mantenere intatta la titolarità sul bene mediante la corresponsione di una somma di denaro necessaria a reintegrare la quota di legittima del legittimario vittorioso con l’azione di riduzione precedentemente avanzate nei confronti dei donatari.
Pertanto, se un soggetto si sta approcciando all’acquisto di una casa derivante da atto di donazione deve considerare che il rischio di non subire azioni civili da parte dei parenti che ritengono di essere lesi nella quota legittima decade:
-trascorsi 20 anni dalla trascrizione della donazione, se il donante è ancora in vita e non è stata mossa alcuna opposizione alla donazione stessa, oppure: -dopo 10 anni dalla data del decesso del donante che coincide col momento dell’apertura della successione.
Per ulteriori informazioni e chiarimenti su casi specifici, potete contattare
lo Studio Baroni & Partners che metterà a disposizione professionisti esperti nella materia.
Il riconoscimento della paternità (o maternità) è un istituto di fondamentale importanza destinato a entrare in gioco ogni qualvolta in cui sussistano perplessità in merito all’individuazione dell’effettivo genitore (c.d. genitore biologico ) di un determinato soggetto, minorenne o maggiorenne che sia. Il riconoscimento della paternità/maternità è un diritto costituzionalmente protetto, precisamente dall’art.30 della Carta Costituzionale, il quale riserva alla legge l’individuazione delle norme e dei limiti per la ricerca della paternità. Per addentrarsi in modo più specifico nella disciplina, occorre in primo luogo distinguere l’ipotesi in cui sussista il consenso dell’altro genitore a procedere all’accertamento della paternità, e in questo caso è sufficiente rivolgersi di comune accordo a un laboratorio abilitato a effettuare il test, dall’ipotesi in cui il consenso dell’altro genitore a tale fine difetta, e si parla in quest’ultimo caso di dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità) ed è quest’ultimo tema che affronteremo. Requisito indefettibile al fine di proporre azione per ottenere una dichiarazione giudiziale di paternità/maternità, nell’interesse del minore, è l’esercizio della responsabilità genitoriale da parte del genitore sul figlio (in caso di minore ultraquattordicenne, al fine di proporre azione è necessario anche il suo consenso) (art.273 c.c.). Inoltre, l’azione in questione, affinché possa essere promossa, deve essere sorretta da determinate circostanze di rilevanza tale da renderla giustificata (art.274 c.c.). Occorre notare che lo status di genitore comporta una serie di obblighi, come ad esempio l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli, il quale sussiste fin dalla nascita di questi ultimi e per il solo fatto di averli generati, di conseguenza: è necessario l’accertamento giudiziale definitivo dello status di genitore affinché nasca l’obbligo di mantenimento in capo al genitore stesso nei confronti dei figli. L’accertamento giudiziale della paternità impone al genitore, oltre all’obbligo di mantenimento, anche tutti gli ulteriori doveri propri della procreazione (mantenimento, educazione, istruzione, assistenza). Al fine di ottenere una pronuncia definitiva sull’accertamento giudiziale di paternità, è necessario fornire prove a supporto dell’istanza, sia essa volta al riconoscimento della paternità sia essa finalizzata al disconoscimento. A tal fine, il nostro ordinamento riconosce la libertà di prova al fine del convincimento del giudice: la prova può essere data con ogni mezzo (art.269 co.2 c.c.). L’unico limite a tale libertà di prova è rappresentato dalla circostanza secondo la quale “ la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova sufficiente della paternità naturale ” (art.269 co.4 c.c.); (Cass. Civ. Sent. n. 27392/2005; Cass. Civ. Sent. n. 14976/2007). In virtù della libertà di prova, quindi, la dimostrazione dell’esistenza di tali rapporti è possibile ma da sola non sufficiente al convincimento del giudice. In materia di accertamenti di paternità e maternità, il pieno convincimento del giudice avviene solitamente mediante prove ematologiche e genetiche. Anche la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere la consulenza tecnica (esame del DNA) lo strumento più idoneo al fine dell’accertamento in questione in quanto è in grado di fornire risultati che si avvicinano alla certezza, avendo margini di sicurezza elevatissimi; la disposizione di tale CTU rientra comunque nel potere discrezionale del giudice (Cass. Civ. Ord. n. 14916/2020; Cass. Civ. Sent. n. 10007/2008). Al fine di evitare incomprensioni sulla materia circa la compatibilità della sua disciplina con la Costituzione, e in particolare con la libertà personale e con il principio di riservatezza, occorre notare come essa sia totalmente legittima in quanto “ […] dall’art.269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della legge 31 dicembre 1996, n. 675” (Cass. Civ. ord. n. 14458/2018). La legge n. 675/1996 è rubricata “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali ”. Di conseguenza, il rifiuto del presunto padre di sottoporsi al test del DNA costituisce un comportamento valutabile dal giudice ed è idoneo da solo a giustificare l’accoglimento della domanda di riconoscimento della paternità, salvo adeguate giustificazioni (Cass. Civ. ord. n. 22732/2024). Colui che si trovi portatore di dubbi circa la propria paternità, e privo di consenso dell’altra parte a procedere con gli esami del caso in modo consensuale, potrà senza dubbio agire in giudizio ai sensi dell’art. 269 cc chiedendo la dichiarazione giudiziale di paternità; sarà poi il giudice a disporre i mezzi di prova che ritiene più opportuni nel caso concreto per formare il proprio convincimento, fermo restando l’occhio di riguardo mostrato nei confronti dell’esame del DNA. Avv. Vincenza D'Anna
La sospensione dal lavoro per inidoneità alla mansione è un tema di rilevante importanza nell'ambito del diritto del lavoro. L'inidoneità si verifica qualora un lavoratore non sia in grado di svolgere la prestazione lavorativa per motivi di salute. Il giudizio di inidoneità viene espresso dal medico competente e può scaturire da visita medica preventiva, periodica o visita medica prevista in caso di assenze per malattia o infortunio superiori a sessanta giorni. In tali casi, secondo l'art. 2013 del codice civile e l'art. 42 del D.lgs 81/2008, il datore di lavoro deve attuare le misure indicate dal medico competente, successivamente può riallocare il lavoratore a mansioni equivalenti con modalità alternative di svolgimento, oppure adibirlo a mansioni inferiori con il mantenimento della retribuzione originaria. L'inidoneità può essere di due tipologie: temporanea o permanente. Nel primo caso , il datore di lavoro dovrà, prima di tutto, trovare modalità alternative di svolgimento della mansione o adibire, temporaneamente, il lavoratore a mansioni differenti, in modalità agile o in altra sede di lavoro. Nel secondo caso il datore di lavoro avrà il compito di: • verificare la possibilità di ricollocare il lavoratore in altra mansione equivalente a quella svolta abitualmente, anche in modalità agile; • verificare, alternativamente, la possibilità di adibire, anche temporaneamente, il lavoratore ad altra mansione, prevendendo anche eventualmente lo spostamento ad altre unità produttive. Ove queste soluzioni non siano applicabili, è obbligo del datore di lavoro sospendere il lavoratore dalle mansioni a lui addette, senza obbligo di corresponsione della retribuzione. In mancanza di alternative al licenziamento, in ultima analisi, il datore di lavoro potrà procedere con la cessazione del rapporto di lavoro. Per ulteriori informazioni e chiarimenti su casi specifici, potete contattare lo Studio Baroni & Partners che metterà a disposizione professionisti esperti nella materia. Avv. Giacomo Graziano
Nell’ambito della riforma fiscale iniziata nel corso del 2023, il Consiglio dei Ministri del 3 luglio 2024 ha emanato disposizioni in materia di riordino del sistema riscossione. Di particolare interesse è l’allungamento della durata delle dilazioni con l’ente di riscossione, fino a 120 rate . Per ottenere tale dilazione, però, bisogna sempre dimostrare lo stato di difficoltà del debitore, tramite il modello Isee, se persona fisica, o l’indice di liquidità, se impresa. Nel testo definitivo del decreto si prevede una differente procedura di rateazione a seconda che il debitore comprovi o meno la situazione di difficoltà in cui versa . A tal proposito, si ricorda che il limite di debito al di sotto del quale questo obbligo non sussiste è stabilito in 120mila euro. Ebbene, per quanto attiene ai piani di rientro aventi a oggetto somme non superiori a 120mila euro, per le quali dunque il debitore si limita ad attestare lo stato di difficoltà senza però allegare alcuna documentazione , sono previsti i seguenti scaglioni di durata massima del piano: -84 rate mensili, per domande presentate negli anni 2025 e 2026; -96 rate mensili, per domande presentate negli anni 2027 e 2028; -108 rate mensili, per domande presentate a partire dal primo gennaio 2029. Diversa è invece la situazione nelle ipotesi in cui il debitore comprovi lo stato di difficoltà , anche nel caso in cui non vi sia tenuto, in quanto il debito non supera il limite di legge. In questa eventualità, per somme fino a 120mila euro, la durata massima del piano di rientro viene così modulata: -da 85 a un massimo di 120 rate, per istanze presentate negli anni 2025 e 2026; -da 97 a 120 rate, per istanze presentate nel 2027 e nel 2028; -109 a 120 rate, per istanze presentate a partire dal primo gennaio 2029. Ad ogni modo, per somme superiori a 120mila euro, la durata massima può raggiungere sempre le 120 rate mensili. Come accennato, per le persone fisiche e le imprese individuali in semplificata, la modalità per usufruire del beneficio delle dilazioni è la presentazione dall’Isee del nucleo familiare del debitore. Si evidenzia che, mentre per gli altri parametri richiesti dalla disciplina di legge, si guarda autonomamente a ogni singolo piano di rientro, ai fini della verifica dello stato di difficoltà occorre prendere in considerazione il complesso dell’esposizione verso l’agente della riscossione; b) per gli altri soggetti, invece, si assume il valore dell’indice di liquidità e il rapporto tra il totale del debito verso l’agente della riscossione e il valore della produzione. Si tratta dei medesimi indicatori attualmente applicati, con la differenza che la loro identificazione questa volta viene effettuata per legge. Nulla cambia, invece, per quanto riguarda le cause di decadenza dal piano di rientro che si verifica con il mancato pagamento di complessive otto rate; una volta decaduti, è vietato rateizzare ulteriormente il debito residuo. Per ulteriori informazioni e chiarimenti su casi specifici, potete contattare lo Studio Baroni & Partners che metterà a disposizione professionisti esperti nella materia. Avv. Giacomo Graziano
Nel corso dell’estate del 2024, un’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Cosenza ha permesso al Gip di ordinare alla Polstrada il sequestro di apparecchiature per il rilevamento della velocità conosciuti con il nome di T-EXSPEED V 2.0 lungo alcuni tratti stradali della provincia cosentina. Sulla scorta di queste indagini, sono state poste sotto sequestro identiche apparecchiature anche in altre regioni italiane, tra cui Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Basilicata, Puglia, Campania, Liguria, Molise e Sicilia. In realtà, il problema della legittimità di suddetti apparecchi lungo alcuni tratti di strada del nostro Paese non è nuovo e già da alcuni anni molte Corti territoriali si erano pronunciate in senso favorevole agli utenti destinatari dei verbali di contestazione di violazione del Codice della Strada. L'art. 142 co. 6 C.d.S., stabilisce che “ per la determinazione dell'osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate anche per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti determinati, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento ”. La norma appare chiara in quanto prevede che soltanto le risultanze di quelle apparecchiature soggette all’omologa sono considerate fonti di prova. Ed ancora, l’art. 45 co. 6 C.d.S., statuisce che “ Nel regolamento sono precisati i segnali, i dispositivi, le apparecchiature e gli altri mezzi tecnici di controllo e regolazione del traffico, nonché quelli atti all'accertamento e al rilevamento automatico delle violazioni alle norme di circolazione, ed i materiali che per la loro fabbricazione e diffusione, sono soggetti all'approvazione od omologazione da parte del Ministero dei lavori pubblici, previo accertamento delle caratteristiche geometriche, fotometriche, funzionali, di idoneità e di quanto altro necessario. Nello stesso regolamento sono precisate altresì le modalità di omologazione e di approvazione ”. Pertanto, a seconda dei casi previsti, si deve procedere ad omologazione oppure ad approvazione, in via evidentemente alternativa. La distinzione tra approvazione ed omologazione è inoltre individuabile nell’art. 192 reg att C.d.S., al quale l’art. 45 C.d.S. rinvia, perché ne descrive proprio la procedura (Sent. Giudice di Pace di Treviso del 24.05.2021). L’elemento differenziale tra di loro è la rispondenza alle prescrizioni stabilite dal regolamento di attuazione al Codice della Strada : nel caso dell’omologazione è richiesto di accertare la rispondenza e l’efficacia dell’oggetto di cui si chiede l’omologazione alle prescrizioni stabilite dal regolamento, mentre nel caso dell’approvazione dovrà trattarsi di richiesta relativa ad elementi per i quali il regolamento di attuazione non stabilisce le caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni ed in tal caso il Ministero dei Lavori Pubblici approva il prototipo seguendo, per quanto possibile, la procedura prevista dal comma secondo. Da ciò ne deriva che soltanto nel caso in cui il regolamento al Codice della Strada stabilisca caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni per dette apparecchiature sarà possibile omologarle. In caso contrario queste ultime saranno solo approvate (Sent. Giudice di Pace di Milano del 11.02.2019; Sent. Giudice di Pace di Milano n. 5454/2021). In sostanza, l’omologazione richiede un passaggio in più che nella semplice approvazione manca. L’omologazione ministeriale autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio appositamente testato in un laboratorio la cui competenza oggi spetta al Ministero per lo Sviluppo Economico (cd MISE). Ha lo scopo di verificare l’efficacia e il corretto funzionamento degli autovelox e la loro rispondenza a determinate caratteristiche tecniche; in pratica, serve a conferire valore legale di prova alle fotografie scattate e alla velocità rilevata. La semplice approvazione, al contrario, risulta essere un procedimento semplificato non richiedendo la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali oppure da particolari prescrizioni previse dal regolamento. Dunque, quale prospettiva ora per gli automobilisti ingiustamente sanzionati? Astrattamente chi ha ricevuto sanzioni a seguito delle segnalazioni degli autovelox T-EXSPEED V 2.0 può impugnare le multe ma anche chi ha già pagato le contravvenzioni elevate tramite tali apparecchi, pur non essendo più nei termini per proporre impugnazione, può attivarsi per tutelare i propri diritti e, una volta concluse le indagini, agire per il risarcimento dei danni subiti. La questione appare abbastanza delicata soprattutto perché si va profilando un conto salato per le casse degli enti locali e le associazioni dei consumatori sono sul piede di guerra per far accertare eventuali danni erariali e le relative responsabilità; seguiranno sicuramente sviluppi sul tema. Per ulteriori informazioni e chiarimenti su casi specifici, potete contattare lo Studio Baroni & Partners che metterà a disposizione professionisti esperti nella materia.